In Arcadia, non più
Enrico Davoli
Il mondo pittorico di Luigi Zecchi vive misteriosamente avvolto dentro brezze e vapori che lo tingono di grigio, di azzurro e di verde, allontanando dal quadro le tonalità estreme, quelle ustionate dal calore come quelle irrigidite dal gelo. C’è in questo mondo un preciso clima stagionale che, alla fin fine, è anche clima intellettuale e psicologico. E’ il clima di una primavera che diventa autunno senza passare per le fatiche della maturità estiva. Oppure, e il risultato non muta, è il clima di un autunno che torna ad essere primavera senza assoggettarsi ai rigori della vecchiaia invernale.
Se Zecchi fosse un pittore intensamente ed esclusivamente realistico e le sue osservazioni raccolte dal vero e rimeditate in studio avessero una valenza prettamente metereologica, si potrebbe dire, un po’ sul serio e un po’ per scherzo, che in tutto ciò si celi una rivincita delle cosiddette "mezze stagioni". Quella primavera e quell’autunno, appunto, che a dar retta alla saggezza popolare ormai "non esistono più", strette come sono nell’abbraccio mortale di un effetto serra che esapera i fenomeni atmosferici e - aggiungiamo noi - di una sensibilità collettiva impoverita dei suoi antichi riferimenti simbolici, legati a cicli pastorali ed agrari di cui ormai nessuno più ricorda il significato. E tuttavia, anche solo limitandoci a questo ci troveremmo di fronte ad una scelta di campo dotata di un preciso significato simbolico ed estetico. La scelta cioè di puntare sulle fasi dell’anno maggiormente legate all’idea dello svegliarsi e dell’addormentarsi, ai riti di passaggio che temprano e rigenerano, piuttosto che su quelle vincolate al grande caldo e al grande freddo, al pathos forte, esplicito, della fertilità e della morte. Ma anche il dramma, il senso della vita vissuta qui ed ora, non è assente dalla pittura di Zecchi; tutt’altro. Semplicemente esso si colloca un po’ più in là, è ancora da venire eppure è già messo nel conto, proprio come nell’esistenza ancora breve dei bambini e degli adolescenti di cui l’artista popola i suoi quadri. Nelle opere di Zecchi vi è quasi sempre una barriera che impedisce allo sguardo di andare oltre. Torrenti sbarrati da dighe in cemento, muri a secco che precludono l’orizzonte, eventi che si colgono in lontananza o in assenza, più per indizi parziali che per visione diretta, sono i tratti distintivi del paesaggio padano ed appenninico che l’artista predilige. E’ un paesaggio nel quale accade sempre qualcosa, dove anche una semplice passeggiata riserva dubbi e presagi. I giochi e le escursioni raffigurati da Zecchi si svolgono sul filo dell’imponderabile: a far scattare l’allarme può essere un filo che si impiglia nei rami di un albero o una palla che rotola nell’acqua o una indefinibile macchia sul terreno. Gli stessi elementi atmosferici, mai torbidi ma sempre irrequieti, sembrano complottare per rendere i luoghi meno innocenti, meno inconsapevoli di quanto non sembri a prima vista. Come in una moderna riedizione della terra di Arcadia in cui i villeggianti abbiano preso il posto dei pastori, anche nella regione incantata - apparentemente incantata - di Zecchi, il mito diventa storia, il tempo non scorre più rettilineo ed eterno. Il paradiso terrestre è vicino, sembra quasi a portata di mano, eppure qualcosa sfugge, ci ricorda che un trauma è avvenuto e che da lì tutto è ricominciato per arrivare fino a noi. Presi dalle loro occupazioni innocue, i personaggi di Zecchi si aggirano ancora in quei paraggi, intorno al ricordo confuso di quel che è stato e non è più. Al di là di un dosso o di una diga, i loro occhi vedono quel che noi non vediamo, vedono per noi. Forse non molto di più, ma quel tanto che basta a far sì che ci si domandi cosa stiano cercando, cosa accadrà loro domani.